Critica

Fabio Sargentini

Pittura, primo amore, dal catalogo Giancarlo Limoni “Il Giardino del Tempo
Macro Testaccio, Roma 21 giugno – 17 settembre 2017

E’ nel suo DNA, la pittura gli scorre nel sangue: Giancarlo Limoni ha dipinto, dipinge e dipingerà. Tutte le volte che lo incontro, avverto una sensazione olfattiva alla quale sono affezionato sin da ragazzo, l’odore della pittura ad olio, acre e dolce allo stesso tempo, inconfondibile alle narici. Un profumo, dovrei dire, giacchè il mondo poetico di Limoni gira intorno all’elemento floreale, mai abbandonato, declinato a volte nella forma morbida e tondeggiante del petalo, o addirittura confluito nella cadenza di onde, come uscite dalla cazzuola di un muratore, che timbrano certe sue marine. Limoni ama molti dei pittori che amo io. Ama Fautrier, Permeke, Mafai, Soutine e … Monet. Parlo di amori perché ovviamente non sono questi gli unici artisti che a lui interessano. Per il pittore delle ninfee nutre forse la passione più grande, un culto o quasi. Per dire, gli ho visto spuntare dalla tasca della giacca per mesi un libricino che gli avevo regalato con scritti di Monet che non conosceva. Anche Mafai è un suo preferito. La serie dei “Quadri spenti” è apertamente ispirata ai “Fiori secchi” di Mafai. Giancarlo e un conversatore brillante e una linguaccia. Le sue battute in romanesco verace sono esilaranti non meno che crude. Fioccano nelle nostre conversazioni aneddoti gustosi, rivelatori. E’ altresì stupefacente la padronanza che Limoni ha di molteplici argomenti, artistico letterario, storico, filosofico. Egli e un pittore colto, ma non concettuale. Soprattutto possiede una capacità mnemonica rara, prensile, non nozionistica, che gli fa tenere a mente con facilità le cose che legge. Questo amore per la pagina non si traduce però in una pittura letteraria. Diversamente da Pizzi Cannella, i due sono amici di lunga data, la materia della pittura di Limoni è in linea con la matière-mémoire di Henry Bergson. Giancarlo non scrive sui quadri, non accompagna la pittura con diciture o versi poetici. Anche la firma la appone scrupolosamente sul retro della tela. La letteratura c’è ma non si vede. La mia frequentazione dello studio di Limoni e ormai trentennale. La prima volta e stata nella primavera 1984 quando stavo per varare la collettiva Extemporanea e dovevo scegliere gli artisti partecipanti. Il nucleo era formato da Nunzio, Pizzi e Tirelli che avevano tutti lo studio al Pastificio Cerere e con i quali avevo stretto un accordo di esclusiva. A loro avevo chiesto informazioni su giovani promettenti da prendere nella mostra. Tirelli mi condusse allora in una stanzetta del Pastificio, non un vero studio ma uno spazio angusto in via di rifacimento. Lì dentro, che armeggiava davanti a un cavalletto, mi apparve per la prima volta Limoni. Non avevo mai visto dipingere alcuno in quelle condizioni: affondava letteralmente con le caviglie in mezzo ai calcinacci. Io ero fermo ancora sulla soglia. In quel momento caddero dall’alto frammenti di soffitto, poca cosa ma in sè allarmante. Al diavolo! mi sono detto e sono entrato camminando sui pavimento sconnesso per stringere la mano a quell’individuo che dipingeva a sprezzo del pericolo, incurante di un possibile crollo. Il giorno dopo raccontai a Pizzi Cannella l’episodio. Gli domandai “Cosa pensi di Limoni?” Lui mi rispose fermo: “E’ un pittore”. Non aggiunse altro. Da allora sono passati trent’anni: Limoni ha dipinto, dipinge e dipingerà.


Lorenzo Canova

I fiori aurei dell’impero perduto, dal catalogo “I Fiori dell’impero”
Biblioteca Statale Isontina, Gorizia 7-21 ottobre 2015

Un’elegia dipinta per un trionfo disperso nel tempo, un apparato celebrativo tracciato sull’acqua per magnificare regni millenari ed effimeri, la memoria di antiche glorie dissolta nel flusso liquido del divenire: Giancarlo Limoni ripercorre e interpreta i codici simbolici floreali celati nei capolavori dedicati all’Imperatore Augusto e al suo Impero in un progetto pittorico sospeso tra leggerezza e densità intellettuale. In queste opere, Giancarlo Limoni unisce la sua vocazione naturalistica che lega la presenza incombente della materia pittorica, centrale nelle sue opere a olio, alla levità trasparente e pulsante delle sue opere su carta, dove l’acquerello e la china creano fioriture e vegetazioni subacquee di riflessi e di accensioni. Limoni, non a caso, si colloca all’interno della grande linea artistica che ha trovato nella materia pittorica uno dei suoi elementi centrali, che l’artista ha saputo far rifiorire nel fecondo contesto della pittura, non solo romana, degli anni Ottanta. L’opera di Limoni e infatti da molti anni dedicata a un’indagine sui medium pittorico e sui suoi rapporti culturali e metaforici con la storia, la letteratura e la filosofia, eleggendo la stessa natura a soggetto privilegiato per una possibile interpretazione e ricomposizione del reale attraverso il suo lavoro esegetico e costruttivo. Per questo progetto, Limoni e disceso a ritroso alle origini della pittura occidentale, dialogando con i grandi e magnifici cicli decorativi dell’arte dell’età augustea, dove la rappresentazione dei giardini, dei fiori e delle piante aveva una precisa finalità simbolica che celebrava in chiave mitologica la Pax Augusta, attraverso le allusioni al ritorno dell’età dell’oro di pace e di giustizia, dove tutto si rasserena in un’edenica visione bucolica di armonia, ordine e serenità. Il ritorno del regno di Saturno e il ritorno della Vergine Giustizia cantati nelle Egloghe di Virgilio come annuncio di questa nuova era pacifica e fiorente sono riletti da Limoni come un viaggio compiuto attraverso la pittura, per superare le vegetazioni ctonie di Plutone e di Persefone e per giungere allo stadio alchemico dell’oro solare di Apollo, nume tutelare dei trionfi di Augusto e divinità che con la sua luce rigenera l’intero mondo in una messe rigogliosa di fioriture. Come già in passati cicli pittorici, Limoni si vede come un viandante alia ricerca, attraverso la sua arte, dell’Eden smarrito che percorre mitologie, religioni e culture di tutto il mondo, nel rimpianto di un luogo che l’umanità ha perduto conservandone però una reminiscenza che assume molte fattezze. Il pittore ricostruisce la memoria di questa terra archetipica in una grande tessitura pittorica fatta di trame liquide e di vegetazioni sospese tra acqua, cielo e terra, nella nostalgia di un “hortus conclusus” dove le corrispondenze tra colori e profumi si animano di vibrazioni e armonie segrete, uno spazio luminoso risvegliato dalla pulsazione vitale della pittura. Giancarlo Limoni ha realizzato così un vero e proprio “viridarium” composto da fogli in cui il colore si addensa per tracciare le forme sfuggenti di piante, di frutti e di fiori, componendo un giardino che si distende sulle pareti della spazio espositivo. Nella sua concezione colta e aperta della pittura, Limoni unisce allora continenti, visioni ed epoche molto distanti tra loro, facendo dialogare l’arte romana con la pittura cinese, la Villa di Livia e L’Ara Pacis con la materia di de Stäel e la sintesi icastica della calligrafia orientale, gli immensi imperi di Roma e della Cina, in particolare grazie all’uso dell’acquerello nelle sue variazioni cromatiche e nelle sue sfumature di solida leggerezza, una tecnica che Limoni privilegia come forma di una privata meditazione attraverso la rapida e incerta esattezza della pittura. Il grande “viridarium” di questa mostra rappresenta quindi un giardino dell’età dell’oro, il desiderio di Limoni di divenire un pittore anonimo e immortale a cui è dato l’onore di dipingere le pareti delle residenze imperiali, essere l’artefice perfetto e sconosciuto di un luogo ideale dove il potere si confonde col mito e dove l’intera natura sembra essere stata disposta dagli dei per esaltare il destino magnifico del monarca discendente dalla stessa dea Venere. Limoni, tuttavia, è consapevole della perdita e della frattura irrimediabile che separa il nostro tempo dall’eta di Augusto, sa bene che di quei trionfi sono rimaste solo alcune, splendide, rovine, ma su quelle rovine cerca di costruire un nuovo giardino e un nuovo edificio della pittura, lavorando non tanto con l’occhio dell’archeologo, ma con lo sguardo di un incantatore che ricompone e ridà vita a frammenti di tempo smarriti nel labirinto della memoria. Le vegetazioni e i fiori di Limoni seguono difatti questa ricerca impossibile ma necessaria, compongono trame fatte di echi e di rispecchiamenti, i colori si aprono come boccioli sulla carta, evocazioni di un sogno millenario di felicità e di prosperità di cui troviamo il vago sentore in un’essenza o in un fruscio di foglie che si agita nell’ombra. Le carte dipinte da Limoni compongono quindi la personale ricerca di quell’età dell’oro perduta, fremono nel loro viaggio per accogliere lo spettatore in una trama liquida di colore, una discesa a ritroso nella notte dei secoli dove i gigli, l’edera e le foglie risorgono dal liquido denso e profondo di un oblio rischiarato da scarne e baluginanti reminiscenze archetipe. La pittura di Limoni sembra annullare dunque il tempo dei cronometri, dilatandosi nel flusso della pittura e muovendosi a ritroso in una curva metafisica che riedifica pareti dipinte e frammenti di intonaco istoriato, stucchi e marmi, in una corrente che cancella i secoli e fa risorgere la carne viva delle immagini. Pertanto i pigmenti si immergono e si cristallizzano nelle acque della memoria per dare forma a un nuovo giardino, a girali di acanto e iris che irradiano pulsazioni di violetto e di azzurro, per ricomporre ancora una volta il monumento fragile di una natura ordinata dai canoni allegorici innestati sulla vita feconda di un mondo codificato dall’utopia di un ordine proporzionale e assoluto. Le opere di Limoni alludono perciò a una continua rigenerazione, a una fioritura bloccata sulla carta e resa eterna dal gesto dell’artista, il processo di rinnovamento si compie perennemente in un ciclo circolare in cui le piante e i fiori ricrescono e sbocciano senza sosta fermate dall’azione paziente della mano che dona loro una vita resuscitata nel rituale magico dell’opera d’arte. Così la terra e il cielo si incontrano e nella loro unione il tempo trova la sua pienezza in una pioggia feconda di colore, metafora della luce che rinasce e trionfa dopo la discesa nel regno dei morti e il ritorno dall’Ade, terra abbrunata e sotterranea della melanconia e della putrefazione che l’artista oltrepassa nella tessitura dei suoi acquerelli inscritta nello spazio della visione come un arcobaleno intriso di una vibrazione cangiante, in un meriggio assolato e senza ombre dove l’eta dell’oro ripete eternamente il suo rituale in un intreccio vegetale di simboli sublimati e ravvivati dalla forza creativa della pittura.

Gianfranco Labrosciano

Castello di Santa Severina, dal catalogo Giancarlo Limoni, Santa Severina, 2008

«Trovo, nell’opera di Limoni, specie per come si è venuta evolvendo nell’ultima sua produzione, le pulsioni dell’inconscio e quelle del caso, della materia e della gestualità, anche “selvaggia”, di un artista che forza il compromesso tra il naturale e l’artificiale con un’ars combinatoria che ricostruisce l’intero universo, rappresentato dal fiore, simbolo e pretesto di referenzialità esterna […]. Ciò che rimane è la sensazione di un leggero vento che spira fra le cose. […]. Alla fine le chiazze cromatiche, le traboccanti spatolate, le colorate superfici affastellate di una materia grumosa, anche baluginante di luce, dichiarano una realtà immersa in una festa policroma e materia, tutta svagata nell’ambiguità tra figurazione e astrazione che testimonia della volontà, io penso, di scorrimento dell’artista, di un fluire di forme che sono come una vorace Babele che tutto prende e consuma. Questa è la vis, la sfera vitale dell’artista […].E forse è questo l’intento della sua pittura, lo svolgersi di un’azione energetica che stabilisce un canale di nutrimento, una progressione del mezzo figurativo, del segno e dell’elaborato materico per la rappresentazione di una realtà non sottratta al controllo o provvisoria, ma anzi trattenuta, catturata nella gravitazione di pochi nuclei espressivi che strutturando la forma la riempiono di senso e percezione.»

Alberto Toni

Castello di Santa Severina, dal catalogo Giancarlo Limoni, Santa Severina, 2008

«Giancarlo Limoni e l’assoluto della pittura. Potrebbe essere questo l’inizio del discorso sulla sua recentissima produzione di acquerelli. Intendo procedere sul piano di una lunga riflessione ad alta voce. Perchè parlo di assoluto in prima luogo? Vediamo. Chi conosce il percorso di Limoni sa che il colore svolge un ruolo determinante, centrale. Ma che vuol dire? Del resto non c’e pittura senza colore. Può darsi, ma non è sempre così. Il problema investe direttamente il rapporto di mediazione tra l’artista e la realtà. Prendiamo le poetiche del “classico” e del “romantico”: erano rivolte a orientare, a condizionare lo sguardo. Coubert per primo si rende conto che ereditare la tradizione significa soprattutto affrontare in prima personae quindi risolvere il rapporto con la realtà con i soli mezzi della pittura. Ereditare così la coscienza dell’arte, l’essenza assoluta, e non una dichiarazione di intenti. Sappiamo che questo darà il via a una vera e propria rivoluzione: l’impressionismo con Monet e Cézanne e poi Van Gogh, Matisse, fino a Picasso e alla storia delle avanguardie del Novecento. Per quanta riguarda queste ultime certo l’assoluto rappresenta altra cosa da quanto finora detto: e insomma l’estremo tentativo di ricostruire un’identità, partendo però dalla negazione. In Limoni invece l’assoluto è ancora una volta nella forza stessa della pittura, nella concretezza dell’atto: la realtà è ciò che vediamo sulla tela o sulla carta in questo caso, dato che si tratta di acquerelli. Un atto di grande coraggio dunque, perchè a comandare sono i colori nel loro risultato finale, fuori dal riferimento oggettivo preso a prestito e istituzionalizzato come spesso abbiamo visto in questi anni. La risposta di Giancarlo Limoni riguarda qualcosa d’altro: è l’urgenza del fare, non il procedimento ma l’esito. C’è qualcosa di corale che ci coinvolge tutti nel mondo cromatico dei suoi lavori. Veri mondi acquatici, ombre e luci, riverberi, accensioni paludose e magnetiche nei rossi, nei gialli, talvolta accesissimi. Penso a quel verso di Sandro Penna che dice: “La vita è ricordarsi di un risveglio”; in Limoni la natura viene ritratta nella sua quintessenza, luminosa ed esplosiva. E’ la lezione dei grandi maestri, l’eredità maturata, ma non per accettare compromessi; anche Limoni scavalca la mediazione e fa sua la tradizione come bagaglio d’esperienza; il resto è patrimonio dell’opera, l’invisibile, il destino nelle sue infinite tracce e percorsi, l’occhio della mente e il sentimento. Così i tulipani, i frutti, il mare di foglie e steli di questi acquerelli rimandano si alla storia della pittura, ma diventano emblema e forza di quel luogo che è soltanto di Giancarlo Limoni, in quanto visione unica e assoluta. Il discorso com’è ovvio non riguarda soltanto quest’ultima produzione, che pure denota un’abilità eccezionale: da sempre Limoni ha fatto della pittura un assoluto. Come dimenticare le tante mostre e i grandi quadri a olio: “Fiore d’acqua”, “Giardino indiano”. Sono titoli che bene mettono a fuoco le ragioni di questo artista incantato dalla natura. Se ne può citare un’altro: “Dietro il paesaggio”, ripreso da Andrea Zanzotto. E come in Zanzotto la natura è fotografata nei suoi elementi, in quell’ecosistema divenuto centra di irradiazione. Certo negli acquerelli il paesaggio è davvero quell’universo mutevole che vediamo negli stagni: universo elementare, davvero stagno o pozza o macchia di sangue. Non c’è modo di sapere con precisione e tutto sommato non importa. Per noi resta la forza vibrante e l’assoluto del colore.»

Claudio Cerritelli

Nei riflessi del paesaggio, dal catalogo Giancarlo Limoni
Galleria Arte 92, Milano, 2007

«Proprio perchè la pittura costituisce la ragione assoluta del suo mondo, Giancarlo Limoni ama cogliere l’aspetto germinante della materia fissando in ogni ciclo di lavoro la vita del colore, il flusso emozionale che avvolge le fibre del paesaggio e le sensazioni interne del suo divenire. L’artista è sempre più consapevole che per dipingere la pittura bisogna averne l’ossessione illimitata, la proprietà dei mezzi e la capacità di tramutarli in immagini […] I pittori a cui si è rivolto l’immaginario di Limoni sono quelli che si sono misurati con la durata del colore tra attimo ed eternità, gioia e drammaticità, da Monet a Van Gogh, da Nolde a Permeke, da Fautrier a de Stael […] La pittura è per Limoni un processo irreversibile, non la si può ripetere programmaticamente, genera stati puri di colore che non possono essere quantificati in quanto ogni opera è un trascorrere di energia che si collega alle altre in modo indipendente da qualunque progetto. […] La gestione di ogni opera è affidata alla capacità di entrare nel movimento della materia attraverso quelle qualità immaginative del fare pittura che Aldo Tagliaferro ha definito come “uso sontuoso del colore” e Francesco Moschini ha chiamato “armonia impetuosa della pennellata”. […] Per chi osserva la luminosità sensuale trasmessa da queste opere non v’è possibilità di sottrarsi all’eccitazione che attraversa gli inesauribili passaggi di energia, statifluttuanti che la pittura trae da se stessa in modo che nessun fattore esterno possa determinarne l’identità.»

Francesco Moschini

Le politiche cantilene del colore, dal catalogo Limoni
Oltre la porta, Sala Castello, Bitritto, 2007

«L’estenuante corpo a corpo con la natura che Giancarlo Limoni ha ingaggiato per oltre trent’anni con alterni momenti di sfibrante tensione e di più pacate e ampie stesure, che l’hanno comunque sempre consacrato come superbo dominatore della stessa, velato pur sempre da più intimisti e pacati sentimenti cosmici, sembra ora stemperarsi in più rarefatte e sottili schermaglie, veri e propri colpi di fioretto, tra gestualità, segno e scrittura, infine, tra corpo e mente, tra ragione e sentimento. Anche ora tuttavia la materia rimane per l’artista l’universo di riferimento primario, proprio per la sua capacità d’imprimervi quelle folgoranti trasmutazioni alchemiche, sia quando l’artista, lavorando sui minimi spessori, sulla quasi assenza di materia, approdava ad aspri sudari fatti di pure striature luministiche, inquietanti nel loro cinereo cangiantismo, nella loro stringata asciuttezza, nella loro laconica esattezza montaliana, sia quando l’artista, con orgiastica esuberanza, giungeva a magmatiche accensioni, vere e proprie esplosioni che si sedimentavano soltanto rapprendendosi come acquietate colate laviche. […] L’elemento di novità cui più frequentemente Limoni ricorre è una sorta di linea di forza che, intrecciandosi, reiterandosi, costruisce una vera e propria ragnatela visiva entro cui si strutturano e si fanno largo le singole deflagrazioni. […] Ma ciò che interessa l’artista non è la perturbante bellezza della struttura con i suoi abbacinanti riverberi, quanto la sua capacità di porre ordine all’informe. […] Non più quindi parole in libertà ma più pacate accensioni che calibrano, volta per volta, il loro presentarsi alla ribalta visiva, il loro indietreggiare sino al loro dissolversi nella magmaticità del fondo. […] Ma ora l’affondo si fa più accorto ed esoterico, puntando su una visionarietà da pirotecnica barocca, ma senza quella prevaricazione dei valori estetici sul tutto, senza quelle esuberanze spettacolari tese a mascherare i vertiginosi abissi del vuoto, […] quanto piuttosto ad evidenziare la complessità di pensiero in cui il dubbio è una condizione permanente.»

Enrico Mascelloni

Limoni o la storicità della pittura, dal catalogo Limoni
Arte 92, Milano, 1994

“…All’epoca della prima mostra all’Attico la natura di Limoni era una matassa di segni nervosi e filamentosi che tendevano a diradarsi verso il centro del quadro, lasciando filtrare la suggestione di una profondità diversa e incommensurabile: tempo spazio e percezione invischiati e inestricabili, come aveva già esplorato Turner. Poi lo spazio è andato come ordinandosi: prima attraverso fantasmagoriche colate verticali di materia cromatica, quasi dei tappeti ortogonali di luce cangiante efilamentosa sopra i quali i fiori erano come improvvise calcificazioni di quegli stessi flussi ininterrotti; poi […] è divenuto un muro di colore spesso e sontuoso, però invalicabile; ed il cui oltre è inimmaginabile, se non come dentro di una materia viva ed in perpetuo moto. Lo spazio di Limoni, la natura che esso costituisce, sembrano quindi polarizzati tra la tensione a dissolversi in luce che fece la modernità di Turner, e quella a costituirsi come muri di colore, che, rimandando necessariamente a Pollock, sono anche il termometro di una modernità che manifesta in ogni momento la propria crisi. […] In Limoni persino l’aria si carica della densità del colore. E questo processo di appesantimento del vuoto, di ispessimento dello spazio che perimetra le figure fino a farle coincidere con esso (o in altri lavori a farcele liquefare), appartiene anche ad una tradizione romana dalla storia lunga. E’ figlio di un horror vacui che attraversa la notte rossa e barocca della Roma secentesca e si consegna, ancora capace di strappare applausi, ad un modo romano di tornare alla pittura che si impone all’ inizio degli anni ’80.”

Laura Cherubini

dal catalogo Giancarlo Limoni – De Rerum Natura
L’Attico, Roma, 1990

«…Nella pittura di Limoni è viva la componente dell’azione. L’artista agisce in stato di furore, quel furor di cui aveva già parlato Platone, di cui Agrippa aveva distinto quattro specie, che Breton aveva ripreso nella sua poetica e che i pittori d’azione americani avevano ereditato proprio dal surrealismo. Limoni circonda il quadro, ingaggia un corpo a corpo con la pittura, interviene più e più volte sulla superficie della tela trasformandola anche nella sua sostanza e attraverso stesure successive le dà un corpo. Nella sua pittura c’è l’eco lontana dell’action painting e dell’informale […] Da un turbinio di segni colorati, da un ingorgo di filamenti di luce, da uno spazio frammentato in infiniti atomi di pittura, un’immagine si configura agli occhi dello spettatore […] Questa immagine latente è in genere un’immagine della natura. […] Dal punto di vista tecnico non è irrilevante notare che Limoni non usa il pennello, ma stick e pastelli a olio che vengono stesi direttamente sulla tela. Senza la mediazione del pennello si stabilisce un contatto molto più diretto tra la mano veloce e sensibile dell’artista, che porta l’eco del movimento di tutto il corpo, e la superficie. […] Nei quadri di Limoni lo spazio è policentrico, la disseminazione dei segni predispone molteplici punti di fuga per lo sguardo e la fuga dei tratti di materia pittorica sembra potenzialmente estensibile oltre i bordi. “Perché di campo bisogna parlare, inteso come spazio delle possibili relazioni, teatro mobile di un intreccio che non ha confini stabilizzati bensì aperti e mutevoli” (Achille Bonito Oliva). […] Per Giancarlo Limoni, dopo il periodo dei colori chiarissimi e luminosissimi, fino al niveo candore di Ricordo, presentato alla Mostra bianca, è venuto il periodo dei “quadri spenti”. Da qui ricomincia a riaffiorare il colore. […] L’immagine non è tuttavia integra, ma sfrangiata dalla deflagrazione di un nucleo centrale. […] Ancor più frammentata o addirittura scomparsa è l’immagine nei quadri del 1989 rispetto a quelli dell’anno precedente. Una sorta di horror vacui produce una superficie fittissima di eventi pittorici. […] La pittura di Bonnard può essere stato un riferimento per quel che riguarda questa materia fatta di luce, la più immateriale delle sostanze, ma il riferimento più preciso resta indubbiamente Monet, come già videro Rubiu, Calvesi e Bonito Oliva. […] Alla fine dello stesso anno comincia poi una serie diversa di lavori, come ad esempio il trittico intitolato Dietro il paesaggio (il titolo stavolta è tratto da Zanzotto). Se prima lo spazio era molto libero e in espansione, assistiamo ora a una maggiore formalizzazione. Il colore è ora steso secondo lunghe e iterate linee verticali con molta forza e consistenza.[…] la colorata materia sembra qui obbedire alla legge di gravità e rientrare così nel regno delle necessità. […] Il gesto si è fatto quindi più regolare e la più ordinata scansione dello spazio risponde all’esigenza di scomporre la luce, quasi a voler mostrare la struttura invisibile delle cose. […] Giancarlo Limoni sembra voler dare corpo all’invisibile. “Le sue non sono rappresentazioni, piuttosto intuizioni del reale espresso attraverso linee, colori e toni” (Roberto Lambardelli). Rendere visibile l’invisibile, questa in fondo è la grande impresa a cui Limoni si accinge.»

Vittorio Rubiu

dal catalogo Giancarlo Limoni – Luoghi segreti
L’Attico, Roma, 1985

«…Limoni ha una sicurezza di pennello che incanta, dipinge bene e veloce: ed anche di questo bisogna dargli atto, ora che la pittura sembra tornata di moda. Il gusto dei sottili arabeschi, prodotti dalle sgocciolature, e impreziositi dalle velature, difficilmente potrebbe essere più controllato, e al tempo stesso, aereo, movimentato: il risultato che ottiene è di una freschezza, una spontaneità, una sicurezza, ripeto, che è di per sé un pregio, e non dei minori. […] Ciò che maggiormente colpisce, allora, nella sua pittura, è proprio questa capacità di muoversi in modo capillare sulla superficie del quadro, senza sbavature, senza ansie apparenti, anche se l’ansia c’è, ed è come il segreto, il pregio nascosto dell’artista. Ma quanta storia in quelle pennellate, assorbita e smaltita in un batter d’occhio. Perché anche Limoni, sia chiaro, ha dovuto fare i conti con il cedimento (o la fine?) dell’avanguardia, con la mancanza di un punto di riferimento a cui commisurare il resto. Non potendo andare avanti, è tornato indietro, ha sperimentato per così dire il già fatto, il già visto. E certo (si parva licet…), è più facile accostare una pittura di Limoni ad una di Monet, che ad una tela di un qualsiasi coetaneo. In questo senso, che designa una scelta critica precisa, la lezione dell’Impressionismo, e in particolare dell’ultimo Monet, ha avuto il suo tempo e il suo peso. Del resto, già titoli come “Fiori d’acqua”, “Stagno”, “Giardino” danno un’immagine della pittura di Limoni. Ma soprattutto ci rafforzano nell’idea che il suo astrattismo, così liricamente intonato, non è di maniera, nasce da una forte impressione visiva; e che insomma, come diceva Fautrier, “aucune forme d’art ne peut donner d’émotion s’il ne s’y mêle une part de réel”. Il che non significa accentuare il contenuto rispetto alla forma. Tanto più che in Limoni le apparenze naturali valgono in quanto si identificano con un’espressione cromatica. Sono colori, appunto: ingredienti trasfigurati di un’immagine non più soggetta a una verosimiglianza o a una qualsiasi forma di mimesi.